Trieste torni laboratorio di inclusione
Questo è un appello che ICS rivolge alla società e alla politica locale e regionale. Un appello a comprendere (e di conseguenza ad agire con scelte adeguate) che i violenti fatti di sangue tra giovani e giovanissimi avvenuti negli ultimi giorni non sono né inspiegabili né isolati: molti fatti accaduti negli ultimi due anni evidenziano con chiarezza che a Trieste c’è una vastissima e preoccupante area di disagio giovanile che non trova una risposta pubblica. Si tratta di un disagio che riguarda italiani e stranieri in ugual modo (ogni ignobile speculazione politica sul punto va ripudiata con fermezza), con la differenza che i giovani stranieri vivono una condizione di ancor maggiore precarietà, data spesso da minori o assenti legami famigliari e da una condizione sociale e giuridica più incerta, che fa salire oltre misura l’ansia su ciò che il futuro prospetta loro.
Si tratta di un disagio amplificato dal covid-19 e da un allentamento delle relazioni sociali che ha riguardato tutti, soprattutto i più giovani, ma che ha motivi più profondi: nasce da un mercato del lavoro precario fatto in gran parte di esperienze di sfruttamento e di lavoro nero (ampiamente diffuso anche se il tema è un tabù), dalla mancanza di luoghi gratuiti e accessibili per le attività ricreative, dalla radicale assenza di politiche giovanili di inclusione socio-educativa. A tutto ciò si aggiunge, per i neo maggiorenni arrivati a Trieste da minori non accompagnati o da giovanissimi richiedenti asilo, un diffuso senso di rifiuto alimentato da una politica dissennata che, per tornaconti politici individuali, ha trasformato una città storicamente aperta e plurale come Trieste in un luogo ostile che non è più, come molte volte in passato, laboratorio di innovazione sociale.
Questo è un appello che ICS rivolge alla società e alla politica locale e regionale. Un appello a comprendere (e di conseguenza ad agire con scelte adeguate) che i violenti fatti di sangue tra giovani e giovanissimi avvenuti negli ultimi giorni non sono né inspiegabili né isolati: molti fatti accaduti negli ultimi due anni evidenziano con chiarezza che a Trieste c’è una vastissima e preoccupante area di disagio giovanile che non trova una risposta pubblica. Si tratta di un disagio che riguarda italiani e stranieri in ugual modo (ogni ignobile speculazione politica sul punto va ripudiata con fermezza), con la differenza che i giovani stranieri vivono una condizione di ancor maggiore precarietà, data spesso da minori o assenti legami famigliari e da una condizione sociale e giuridica più incerta, che fa salire oltre misura l’ansia su ciò che il futuro prospetta loro.
Si tratta di un disagio amplificato dal covid-19 e da un allentamento delle relazioni sociali che ha riguardato tutti, soprattutto i più giovani, ma che ha motivi più profondi: nasce da un mercato del lavoro precario fatto in gran parte di esperienze di sfruttamento e di lavoro nero (ampiamente diffuso anche se il tema è un tabù), dalla mancanza di luoghi gratuiti e accessibili per le attività ricreative, dalla radicale assenza di politiche giovanili di inclusione socio-educativa. A tutto ciò si aggiunge, per i neo maggiorenni arrivati a Trieste da minori non accompagnati o da giovanissimi richiedenti asilo, un diffuso senso di rifiuto alimentato da una politica dissennata che, per tornaconti politici individuali, ha trasformato una città storicamente aperta e plurale come Trieste in un luogo ostile che non è più, come molte volte in passato, laboratorio di innovazione sociale.
Le politiche pubbliche per i giovani e per tutte le fasce più deboli della popolazione vanno cambiate profondamente e il prima possibile affinché Trieste torni a essere una città aperta e inclusiva che guarda al futuro e non un luogo che si culla nell’immagine patinata di una città dall’elevata qualità della vita (la lettura dei dati statistici andrebbe condotta in modo ben più complesso), perché la realtà sociale del territorio è molto più dura e difficile.